martedì 20 luglio 2010

Raccon-tiny.

Sveva - questo il suo nome - preferiva passare molto tempo da sola. Le circostanze che lei stessa aveva creato nei suoi trent'anni di vita ormai lo consentivano. Erano circostanze ingloriose, che per chiunque avrebbero portato un solo nome: "fallimento", ma che per Sveva andavano bene. Aveva imparato a dimenticare l'ambizione e la dignità come si dimenticano gli ombrelli nei tram o nei negozi appena smette di piovere.

La mattina era la parte migliore della giornata, Sveva si alzava presto e preparava il caffè. Poi si metteva davanti al computer. Le dieci, le undici, mezzogiorno. Tutto tranquillo.

Il peggio era l'ora di pranzo.

Sveva - questo il suo problema - aveva paura degli sguardi. Il terrore. Uscire di casa le restituiva proprio quella enorme controindicazione: di incrociare gli sguardi. Anche se i peggiori non erano degli estranei, bensì della gente conosciuta. Amici, parenti. Chiunque per Sveva possedeva i poteri di Medusa, cioè di pietrificarla con gli occhi. Quegli occhi, gli occhi degli altri, diventavano molto importanti per lei. Ne era attratta, anche. Rotondi, vitrei, colorati Sveva li amava, come le biglie della sua collezione. Al tempo stesso erano per lei la fonte dell'orrore e dell'abisso.

A ogni sguardo Sveva abbassava la testa, che si riempiva di colpo come di un gelo freddissimo fatto di piccoli aghi di ghiaccio. Così era costretta a scappare e a diradare qualsiasi contatto umano. Quegli occhi la costringevano a rimanere immobile, a bloccare ogni muscolo e a neutralizzare ogni espressione del viso, come un cucciolo di gatto sotto la morsa della madre sulla collottola.

Il pomeriggio era un po' come una decompressione. La stanchezza di questa fuga dagli sguardi si faceva sentire, e Sveva allora si accucciava sul divano e dormiva. Con il computer sempre acceso sulla pagina della posta elettronica, perché è solo così che poteva comunicare.

Al secondo risveglio della giornata, verso le cinque del pomeriggio, Sveva sentiva una grande fame. Apriva il frigo e prendeva lo yogurt. Faceva merenda di fronte allo schermo, a guardare le immagini fisse delle fotografie degli amici.

E poi la sera. Dopo cena Sveva finalmente chiudeva un po' gli occhi. E immaginava che esistesse uno specchio per guardare negli occhi senza essere vista. E subito dopo immaginava di essere al cinema. Sperava che un uomo le prendesse la mano. E poiché era buio e c'era il film, poteva evitare il suo sguardo, senza rischiare di essere fraintesa, di essere quella che "ha qualcosa da nascondere". Perché solo al cinema poteva guardare dritto di fronte a sé con una buona e nobile ragione.

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